Poesia

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Rosso di Sera

 

 

 
Un diario intimo e particolare ripercorre un intero anno raccontato attraverso le impressioni personali a cominciare dal crollo delle Torri. Si alternano, scanditi dalle stagioni, eventi, esitazioni, ricordi, dubbi, anche drammatici, in una forma quasi sempre implacabile e diretta con la finalità espressa di una sorta di ‘normalizzazione’ della poesia, quasi una spoliazione dell’elemento facilmente suggestivo e retorico. Per questo soggetti abitualmente esclusi, come una piccola automobile, possono trovarvi posto. Ci imbattiamo allora in un verso anche brusco, speso inatteso, attento a scrutare la realtà nelle sue ingiustizie e disuguaglianze, partecipe degli esclusi e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, ma anche curioso di ogni forma creata e tenace ascoltatore delle irrisolte domande della nostra umanità. La limpidezza del messaggio tuttavia niente concede a una poesia gracile per cui in essa facilmente si ritrovano echi della tradizione anglossassone anche più datata, nonché i sussulti dell’animo umano che tanta parte hanno avuto nel secolo appena passato. Ma in fondo, da sempre, è questo che diciamo poesia.
 
Estate
Aspra calura sulla pietra bianca
tra roche cicale e fichi corruschi
la risacca accoglie l’anima
al riparo dal tempo
Potrei scavare nella memoria
ma non adesso
che il sogno svapora
e non urlare dentro il mio cuore
le risposte che dici
d’amore
se hai varcato
la congiunzione
e mi copre solo
un angolo di passato
da un inverno pieno
in un bar di periferia a bere felicità
Inverno
Il gelo prese il respiro
imponendo l’attesa.
Fermò il cuore
con spini di ghiaccio
Viandante della notte
slaccia quella bisaccia
e indicami dov’è il Paradiso.
Non torcere il dito
su un chicco di brina
e non ritagliare un disco giallo
per illuminarmi la stanza.
Scardina le stalattiti
che barricano gli accessi
e tra dirupi e monti
io seguirò la strada più breve
per condurre alla salvezza
almeno la fame di un bambino
E chi nasce a sud di un ricciolo
del gigante disteso
si chiama Tuareg
e pesca la fossa della vita
colore del sangue
nella notte che picchia di gelo
il Tuareg aspetta
lo sguardo ampio
sulle distese del canto
e tira la vita,
la difende, cerca?
Cerca poesia in altro alfabeto.

Acqua bagna il campo,
non tardare, adesso
seme diventa grano
mensa del sole
grano dammi una spiga
fiore senza picciolo
spiga regalami un chicco
pepita di sopravvivenza
e tu pietra macina macina
fai un pane
un pane, fornaio
per mio figlio
i miei figli
tutti miei figli
ne muoiono di fame
uno ogni sette

3° classificato Premio Garcìa Lorca, associazione Due Fiumi, 2004

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Io confesso

 

 

 
Già da questo attacco di Umiliata, Fortuna Della Porta fa quasi una perentoria dichiarazione di poetica e indica i sentieri dove sparpaglia il sangue in tumulto, la carne che rifiuta l’oltraggio delle piaghe, l’offesa delle rughe, muovendo l’ars poetica su forme misurate, ritmi armoniosi e sicuri e immagini ben intonate alla sua misura di donna e di poeta, in un impressionismo autobiografico che nulla concedente né alla retorica della confessione sregolata né alle trappole sfumate del bozzetto. La poesia di Fortuna Della Porta ingloba in sé i valori dello spirito e della idealità: scava nei recessi oscuri dell’animo umano e rivela - senza risparmio di forze né smarrimenti, ma in un’accettazione montaliana della fragilità del nostro destino terragno incentrato sul male di vivere- i nostri limiti, le nostre miserie, le piccole nostre morti quotidiane, spesso senza riscatti né resurrezioni. Questa poesia, così, riesce a farsi unguento e resistenza contro la violenza universale, lo sgomento cosmico, la corruzione della coscienza (i mali più crudeli dell’uomo di ogni cielo e d’ogni condizione) perché essa varca i confini della nostra finitudine, sostenuta com’è da un’ansia d’eterno e d’assoluto e forte di quella capacità di mostrare lo stupore che s’alza da ciò che ci sta intorno (Gino Rago).
 
Premessa
 
Quando accoccolo il sangue a scrivere rime
Mi colgo rabdomante al mio sentire
E nella radice dell’anima appiglio la vena
O esploratore estatico dipano il filo
Nella foresta inviolata all’alito della vita.
Se non scrivo di poesia perdo me e le ore
Che si torcono in un mazzo di pruni
Goccia il mio soffio romito nella scultura
Dei tasti incolonnati sul vassoio dei pixel
Allora s’aprono gli occhi colmi di grazia
Perché se non scrivo di poesia non penso.
Non mi trovo.
Ma, presunto poeta senza una scuola
Quando nego i sensi al groppo del mondo
Ho solo amici, a dimora, di tempo consunto
Che bevono con me caffè di liquirizia
Racchiusi in epitaffio ornato di allori.
All’orlo della pagina, di giorno e di notte,
Quando sanguina il sole e abbacina gli occhi
O sosta dietro il barlume degli astri
Ospito cori a sfogliare un canto dal nulla della tomba
Impigliati nella tela di una raccolta
Con traduzione a fronte dove incipia l’eterno
E io insieme, pur in pasto a un esercito di mostri,
Riccardo Reis ride e io inseguo a consolarmi.
 
Trasognata 
Ah, immagini capovolte,
Il miraggio nell'acqua
Vado vestita di bianco
E una cintura di vie.
L'oste mesce sensato la sera
E la pezzuola lunare
Concia al mio passo niveo
Provvisoriamente mi tiene
L'orecchio fluttua compreso
E vorrei ascoltare una sirena:
Scalami adesso che lo stallo
Mio molle soccombe di allegorie.
 
Intrinsa
Amore, ti ricordi
Quando cademmo nei giorni
E nelle mutue parole
E l'impronta della luna
Capriolando
Colse gli occhi opalescenti
Sulle tue cosce vitree
E il grillo che si sgolava
A perdifiato, la lucciola
Concentrica e bighellona
Le strade senza peso
Gli spazi conclusi
nei nostri perfettissimi piedi
E il vortice del sangue
Nel suo serpente di rosa
I sensi scoppiati dal soma
Le cascate di tutte le luci
La nostra intangibilità
E il sincrono volo proteso
A sfida e onnipotenza.
Amore, ti ricordi
Quando si persero i giorni
Come s'ammutò parola.
 
 
 
Pensiero bianco su una croce di lenta alba
il tuo piede canuto risale la veglia, io che
stamani sul tuo prato mi sono corrugata
 
 
Sonetto napoletano
Aggio cugliute sciure e pecuntrie
pe carattere schivo non per sventura mia.
Aggio sempre scansate battaglie e cunsiglie
in compagnie e nu micille zinghere
nu libre e tanti piezze e carte scritte,
mentre l’occhie s’incagliavane ‘nta neglie
A generazione mie comme e falene
Pipiavano appriesse ‘e tovaglie do currede
E rote e nu traine portavano o suonne
Na cicoria nto piatte, ‘na mezza pummarola
Nu cavalle scunucchiate nta sagliute
Che zuoccole da pene che frieveno a via
Attuorne a me, insomma, tutte era fatica
E bellezze che s’addurmevane senze mai d’aprirse.
 
Ho colto fiori e malinconia/per carattere schivo non per sventura mia./ Ho sempre scansato consigli
e battaglie/Mi ha fatto compagnia un gattino zingaro/ un libro e tanti pezzi di carta con una
scritta/mentre gli occhi s’incagliavano nella nebbia./ Tutte le mie coetanee come falene/ pigolavano
intorno agli asciugamani del corredo./ Le ruote di un carro portavano il sonno,/ una cicoria nel
piatto, mezzo pomodoro/ un cavallo stramazzato nella salita/con gli zoccoli della pena che
friggevano la via./ Intorno a me, insomma, tutto era fatica/ e bellezze che si addormentavano senza
mai aprirsi.
 
Opere di Roberto Di Costanzo
 
Segnalato al Premio Lorenzo Montano, 2008
 
 

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Diario di una minima quiete

 

 

 
Possiamo definire quest'opera di Fortuna Della Porta una fusione a freddo di materiali freddi, gelatinosi, mediante un procedimento "a caldo", una sorta di eruzione vulcanica che muta allo stato liquido i materiali iconografici e semantici della "colonna sonora" della tradizione...
Diario di minima quiete non è da leggere nell'accezione di poesia minimalista oggi in voga... la poesia di Della Porta è arte che aggetta su grandi campate, che poggia sui piloni di ponti tecnologicamente arditi, è arte speculativa, che specula sulla propria inesistenza o all'ombra della propria inesistenza: "Si vive bene dentro in un quadro di Chagall"....
 
dalla prefazione di Giorgio Linguaglossa




Qui i tizzi del crepuscolo 
  
Poesia ti rifarò dissonante  e brutale 
Arrovesciata su bacche di sterpi
Da terrazze ingommate di brina
-che nessuno dei musicanti 
dalla rima baciata se l'abbia a male-
Coi benpensanti non fingere patti
Des hommes ne son pas la vie vraie
-alla verità lo sguardo di pietra-
In coloro che si adornano di strati e mantelli,
Anime troppo leziose  a rabattarsi  
Di sangue e di fango- Da sempre infratelli-
Nuda, poesia. Ti inciderò ignuda e violenta,
Altera come il giunco alla piena
Audace come la chiglia in tormenta 
Che emerge con escoriazioni dal flutto
E l'oppressione del respiro che volge al freddo
Ma pure tra il  furore e l'onore:
Te le ho già cantate, tempo.  Io semino versi
Rassegnati a vivere di vento. 
e suis pécheur je le sais bien
 
il pulviscolo  del grillo notturno 
Acciuffo parole. Per essere essenza acciuffo parole 
E uso forbici a doppia lama per ritagliarle sulle sagome.
Intreccio la mia identità al mare degli assembramenti
Rabbercio la mia espirazione tra simili e contrari
Mi crepita tra le mani un neologismo o un'anticaglia
Burattinaio della moltitudine salvifica, soffice
Cultore di assonanze e traslati sul filo d'inchiostro
Delimitato da un suono, come fulminea conoide 
Che un savio fiume assoda alla sua svolta migliore.
Sono quello che creo al coppo della pagina vuota
Che d'un tratto parla e mi sforza a colloquiare seco 
E con i dementi credenti che si fidano a fluire 
Petali e perle traslucide da un labbro.



alla libertà il mio occhio querulo
Nuda oltre la carne, la furia è svampata,
Il cuore mansueto a svelare infingimenti 
Sulle vele loquaci delle accantonate stagioni
Sciolte tra le rugiade del torpido ottobre

O forsennata esaltata cicala 
A sognare un recinto cifrato sul dotto Parnaso 
E dalle pupille rotte crepita la rosa e il geranio
Pensieri di ambizione, 

La prima carriera dei versi, iniziata e preclusa,
Nel fiore del primo bacio a sorvolare il silenzio
Un'ispirazione dal labbro

Bacio fragile e frugale trepido e rimpianto
Cosa può arrischiare se non imbrattare pagine
Strapazzare versi e alzare la posta



 il mare schiude il suo lume 
Come quando la terra di limoni
Cantavano il corredo le donne
Del bruciato deserto del sud
E i cani beccavano alla strada
Come quando a mela cotogna
O  pannocchie si mangia nel sud
I ragazzi inseguivano il cerchio
E battevano le figurine del calcio
Precipitosamente abbruniti d'aprile
Negli scampoli del deserto del sud
Il sole si stanca sul mare del sud
L'arsura ha radici negli occhi del sud
E mulina la polvere nel deserto del sud
Le donne cucivano e cantavano
Dietro le proprie sbarre nel deserto del sud
I denti di perla gli occhi di pece
Cantavano l'amore le donne del sud
Nella ruggine succosa d'arancio 
Nutrivano  sogni le donne del sud
Volano e imparano i mestieri
Come quando si scorcia la scuola
E lo specchio ti scantona nel riflesso del sud
Si leva il vento nelle piane del sud
Con petali e foglie e vite in ginocchio nel sud
Come quando ieri alla fine del sud
Come quando non piove nel deserto del sud
Come quando si copre di spine il deserto del sud
Come quando la fuga è preclusa dal deserto del sud. 
  


Segnalato al Premio città di Castrovillari - Pollino "Francesco Varcasia", 2006 

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Mulinare di mari e di muri

 
 
L'essere, il suo destino e in mezzo la metafora del mare come rappresentazione di una dimensione spazio temporale ineffabile, del troppo vasto per essere compreso ma che tuttavia viene intuito come destino ultimo che ci assorbe e in lui ci discioglie: questa mi pare essere l'idea di fondo che viene problematizzata in questa raccolta, certo senza ansia, ma come accoglimento di una intuizione o una verità misteriosa e cangiante, così come è profondo e cangiante il mare che è protagonista, in queste liriche. L'autrice ha dunque affidato a questo grande archetipo (così come lo sono la montagna, il cielo e gli altri elementi immutabili nella natura) il compito di rendere per simboli il messaggio perché "non si trova una frase a descrivere l'inesprimibile" e anche l'Io poetico cerca di uscire dal suo annichilimento proprio cercando di immedesimarsi nell'archetipo stesso, di assumerne i caratteri, il personaggio, di trasformarsi in lui.... 
In questo modo il mare viene quasi antropomorfizzato e l'Io poetico finisce col con-fondersi, anche fisicamente, con il mare stesso, in una sorta di continui rimandi, quasi una fusione o una con-fusione che ruota intorno a domande anch'esse cangianti, inafferrabili, inesprimibili. Il risultato è come una sospensione, un sogno da svegli. Una specie di altro-mondo, dal quale il mondo vero, che peraltro si affaccia in pochissime occasioni, viene violentemente estromesso (in Rotta cieca ad esempio) o stigmatizzato. È un mondo vuoto, sguaiato, incapace di ispirare senso. Restano le lunghe ombre della sera della vita, nella loro dura inconsistenza, che paiono alterare la percezione stessa, in una sorta di bizzarra deformazione del reale, avvertita nella dimensione spirituale e anche in quella sensoriale. 
 
dalla prefazione di Gianmario Lucini




Prologo 


Mare dalle lunghe ombre
mi affretto.
Sciolgo i piedi e la piena
quieto del mio respiro.
Discendendo
l'ultimo ricciolo della vita,
in partenza saluto
gli alberi, la nube che si fece ricordo
e i gigli fratelli
che sfidano la vorticosa estate
prima che l'inverno bruci.
Abbraccio i fiati altrui
gli animali e le costellazioni
e le pietre che servirono
a lastricare un passo e poi subito l'ultimo. 
  
Cenere del tempo,
di me neanche la mano si salva,
nemmeno uno dei miei capelli.
Oh, piccole onde di saliva che salite tra i denti
dove misi la parola amore e il primo bacio
dite al mondo che ho ancora labbra tenere
che il cuore ruggisce...


Ormeggi 


A tornare dal vessillo del sole
al rogo della mia anima
nulla è più vaporoso del volo delle rondini
e tutto più grave del mio sangue.
Continuo a vivere a dispetto
del sentirmi tranquillamente meteora
tranquillamente straniera.
La vendemmia esala su pere e noci
il canto di una bocca dai morsi autunnali
ai quali nessuna equazione vale più di un'altra.
Ma finché il petto s'apre all'aria
prima che si perda ogni traccia
delle orme eroiche
mi atterrò al passo accordato.
Sulle costole dei meridiani
getterò le arance rosse della tenacia
e come il pescatore avrò le mie battaglie.
Continuerò a picchiare sulla volta del cielo
fino a scrivere: sono stata qui. Ho respirato. 



Bonaccia 


Abitare la fatica della vita
gettando lampi nella gelida calma
i pensieri coperti di polvere.
La materia, nella sua tenebra,
vibra, scola e sbatte
orribilmente alla fine.
Col fiato tra i denti, il piede oscilla.
Ma qui radicati, o Fato,
sulla terra assennata di vento
che stacca le foglie morte
e già culla in boccio le gemme,
oziando nella furia dell'alba
torna ogni volta uno sprazzo
ad appropriarsi del cielo
e le guance del tramonto
inchiodarsi all'aria con un sorriso.
Respirare nelle pietre
che sanno di storia e leggende
fin dove succhia la radice il nettare
e fa capolino un fiore
nelle albealbe, bianche spume,
al corteo della luna, la sorella notturna
che cuce con la passione la garza dei corpi:
qui ogni rosa o merlo o amore parla
a labbra tumide il linguaggio del ristoro.
Celeste meraviglia è la trappola dei sensi
e sia pace al pungiglione dell'etere. 







Rete a strascico

Marinaio,
nel giardino del mio diletto
un spiritello
scorrazza in mari fatati
e le onde si bordano
di grinze fugaci
o si spaccano
in mareggiate tuonanti
ove la mente s'esalta
e spalanca stupori
abissali
incantati
avvinghiata ai coralli calcarei
alle cianoficee filanti.
Negli umani vincoli della carne
nuotano
pesci dalle livree forestiche
purpuree
come sbocchi di sangue.
Sono tali i pensieri
all'orlo della sera:
neri, azzurri, lattescenti
rinchiusi di orrore
o aperti di avventura
creati dalla fantasia nel cuore
per fortuna, per mia consolazione,
non finiscono mai. 



Mari del mondo 


Veraci querce le mie sorelle di oro e di ferro
le incontro spesso a piluccare il cuore del bosco
nei loro visi di pietra, acuti e appassionati,
la furia della vita. Inadatte solo alla guerra,
raccattano erbe per la cena, arbìtri e abusi,
sugellate nelle lande della barbarie
in pepli di prevaricata ignoranza.
Così vi penso, solo così vi amo, disassuefatte
alla riuscita illecita, piegate e respiranti
cure materne sul prato verde della propria zolla:
motilità da banderuola e perizia di conti.
Ogni gigante del bosco è conforme alle donne.
Le ime radici figurano lo spasmo all'azione,
la controvento criniera del salice, per esempio,
la fermezza al sacrificio, o gocce del mio mare,
mentre mai dome versano chicchi e sorrisi intorno.
La vostra casta saldezza è un albero nella burrasca,
solo i miei piedi da sempre al precetto irriverenti. 
Risacca 


Il viaggiatore ha il piglio, mi pare, impetuoso
di una barca che risale la corrente tra le schiume.
La chiglia saetta i riverberi dei fulmini
mentre spacca l'acqua come solcasse i campi.
Ogni piede fiero sospinge le sue ambizioni

quasi il gambo della stella sincera
che gira la notte pomposa priva di peso.
La felicità di andare ai propri talenti
è il tratto incendiario della festa iniziale
prima che il disincanto zavorri la casa

costruita su fango di palude.
Vivere rimpiangendo i miraggi che
hanno perso la voluttà di compiersi
fidando che un guizzo torni all'antico fervore.
Nessuno sa dove ormeggiano i progetti inconclusi

e quando comincia la tristezza
a indicare i cimiteri delle attese del mondo.
L'oceano consumato della disillusione lavora
ai polmoni come il fumo all'incallito fumatore
fuori lasciando l'involucro stremato e la rinuncia. 



Opere di Stefano Busonero 
 
  Segnalato al Premio Lorenzo Montano, 2010
Premio per la poesia Ombre in Osmosi, 1° classificato, 2010

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La sonnolenza delle cose

 
 
Delle cose (al di là della loro metaforica ‘sonnolenza'), la poetessa mira a percepire le essenze, il senso (vichianamente ‘riposto', anche laddove appaia stravolto, nel frastornante «stillicidio dei giorni») da attribuire ad esse. E mira soprattutto a cogliere il senso di noi stessi... Comprendere chi siamo è l'obiettivo. [...]
Il viaggio può considerarsi, in ampio ventaglio metaforico, nucleo tematico basilare della raccolta. Viaggio il giorno, dall'alba al tramonto; viaggio la notte, con i suoi sogni e le sue insonnie; viaggio il fluire delle stagioni; viaggio il vivere [...] Un procedere, il nostro, nell'imprevedibile, secondo l'amara concezione della poetessa - tra il mistero che ci precede e quello che ci attende, all'arrivo -, nelle cui tappe fa irruzione la memoria [...]Ineludibile e imprevisto, il punto di arrivo si incunea nei meandri della «ruffiana» memoria o nello «incrudelire» dell'insonnia. Il pensiero della fine ha irregolari, improvvise intermittenze, che si traducono in «tregue» nei frammenti più o meno ampi del quotidiano. [...] Colpisce, in Fortuna Della Porta, il modo di risolvere liricamente argomentazioni e narrazioni, in un variegato, spesso inconsueto (come deve essere), gioco di metafore. Immagini della realtà di ogni giorno sono investite, talvolta, da bordate surreali trasfigurando quelle immagini e facendole apparire come in sospensione. [...] E dalla contemporaneità giunge l'istanza di una attualizzazione del mito, di una rivisitazione di mitologie (bibliche, greco-romane, orien­tali), poiché le chiavi del mistero sono eterne e tali si appalesano se adeguatamente usate. [...]
Una poesia alla quale non manca il coraggio di spendersi (non sperdersi) nella parola.
 
dalla prefazione di Lucio Zinna







Poemetto di colore scuro
Il naufragio del tempo:
giorni 
che stramazzano in ricordo. 
La mano, 
un pugno di carezze negate, 
è scrigno senza chiave 
del rimpianto. 
Eclissata tra i pampini 
di quella che fu uva 
la passione che bevve 
la brutale grazia del cielo 
e i passi 
a due a due intrecciati.
 
Il destino della luce 
si logora d'inverno, 
il declino del sole dura 
un battito del cuore. 
Dopo il tracollo, 
s'immensa negli occhi 
- convulsa - 
la falce della notte. 
Così, la regina che guarda oriente
si confonde, 
procede a ritroso, 
col nero ai fianchi 
che infittisce in continuazione.
 
Anche una moneta capovolta 
proietta il livido notturno. 
Sembra svelare 
un lato non coniato: 
oggetti persi 
pensieri d'angoscia. 
D'inverno, quando 
il giorno non torna 
sui suoi passi. 
 
Gli anni nascondono il segreto, 
il giorno caldo e reale 
se ne va. 
Così l'angolo del sole muta 
senza trasalimenti. 
Tra le cose sfuggenti 
il lampo che diverge. 
Nessuna più luce 
alla finestra 
la porta non più aperta 
del cuore sull'attesa. 
 
Ancora una volta 
bussa al petto la notte. 
Gelido con le foglie 
e col sangue 
il cinico vento 
le strappa e le accatasta 
in rovine di rossi maceri. 
Sui fili della luce, lassù, 
uno stormo in partenza 
trasale alle folate. 
All'imbocco della sera, 
nel breve lasso del mio tempo, 
rabbrividisce un sasso, 
già polvere nella pelle nuda. 
L'aia del cosmo, 
nell'ora che trabocca, 
cela un gorgo in abbandono. 
Per questo, 
il sonno è l'interregno 
che, sempre più, 
tarda a calare sui gesti
che non vorrebbero concludersi mai: 
esita ogni fibra, 
si rifiuta. 
Pesa, sull'ora che si chiude,
il sospetto di un addio. 
... segue 



Tra cielo e terra
Appartenere al cosmo
dal sincrono perfetto
non all'uomo
dalla natura fallace.
Apparentarsi
all'ineffabile eremo
che la banda estrema
di un telescopio
ingoia appena o per nulla.
Nel cerchio astronomico,
scandaloso per la vastità,
l'inagibile prateria
di gialli girasoli
accoglie
astri concomitanti
leali ad appuntamenti
fissati da millenni.
Dove la cartesiana coscienza
di ciò che accade, quaggiù,
contigui ectoplasmi
sul millimetro dell'orbita
ad ogni istante collidono.
 
 
Tempo onnipotente,
pesante irrisorio,
padrone della metamorfosi
dalla bocca vogliosa,
lasciami cadere
oltrepassami
dimenticami
nella nicchia di un istante 
prima che mi manchi 
il respiro della terra. 
Deponimi 
nell'ora zero, 
nell'eterno presente 
di chi è già stato 
e chi verrà, 
un puntino infinitesimo 
tra ieri e domani, 
e non commisurare 
anche la mia sorte 
all'anello caduco del tutto. 
Dentro di me 
casa cadente 
ho tante sembianze seppellite 
ora all'estuario 
quando il fiume 
lo presi alla sorgente.
....segue 



Le vie dell'anima
Per quando torni 
- domani o mai?- 
metterò un lume alla finestra 
rose ovunque. 
Se rincorri la stria 
lascia ondeggiare le tende 
dai aria alla stanza 
sprimaccia il tanfo del chiuso. 
Riprendi il verso 
della lontananza 
ceduta ad amori 
che non erano il nostro. 
I timori forse 
si confermeranno. 
Gli inganni vorranno svelarsi 
e forse anche questo gioco 
si accingerà a lasciare il tavolo. 
Nemmeno una fantasia 
dura abbastanza. 
Neppure una noce 
o un amore altisonante. 
Solo le attese impiccano una vita. 
Nella loro inconsistenza 
dure come un macigno. 
... segue 



(tregua) 
 
Mi preparo dal primo vagito: 
quando il dolce fiato mi cadde 
di schianto sulla pietra della terra 
imparai l'arte del commiato. 
Ogni giorno dai capelli, da un'idea 
in modo che il passo mi fosse 
leggero. Ho calcolato male: 
nutro rimpianti 
e ho ulcere alle mani 
La mia porta da tempo 
chiusa 
nell'antro dell'agonia. 
 



Commiato
 
Ho finito di crocifiggere il sole 
coi battiti del cuore,
pifferaio di lusinghe. 
Fra poco diranno: hic iacet. 
Brassens à la plage de Sète 
a me vi prego di interrarmi al cimitero degli Inglesi. 
Non è superbia: voglio accanto per l'eternità 
sotto la terra damascata di fiori 
e gli alberi generosi di ombre 
un gatto dagli occhi scarlatti 
e profondere radici 
fino a chi possa accogliere me. 
Nella conchiglia dei miei compagni di viaggio 
la notte si rischiara 
e allora 
morte non andar fiera 
non mi toccherà l'oblio. 
...segue 





Immagini gentilmente concesse da Studio Esse snc di Davide Stancampiano - Roma 
In copertina: Endimione in drappo rosso; 
all'interno: La dormeuse.




 Premi
1° classificato Premio Il Convivio, 2011
2° classificato Premio Città di Bellizzi, 2011
3° classificato L’astrolabio, 2011
Premio Sabatia, CONI, 2011
Finalista Premio Marengo d’oro, medaglia d’argento e diploma, 2011
Finalista Premio Manzoni, 2011

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Gramaglie e frattaglie

 
 
Il sonno della lingua genera mostri, soprattutto se si abitua ad addormentarsi dentro la dimensione soporifera della telescatola, dove è costretta a frequentare una popolosa corte di nani ballerine pennivendoli saltimbanchi piazzisti che se la spupazzano, la povera lingua, impoverendola vieppiù a proprio piacimento uso consumo, così da farne uno strumento (lo strumento) per capovolgere i termini della realtà (come la pensa il nostro Guido Oldani) e per convincerci che la vita vera si compie là, dentro la scatola di prestigio, mentre a noi tocca restare nell’aldiquà, costretti a imparare il mestiere di voyeur, un mestiere che ci rende spettatori ascoltatori di discorsi precotti aventi per oggetto il passaporto verso il balordo paese dei balocchi. Tra noi e la realtà parole che fanno finta di dire, il che dovrebbe bastare a fare della poesia un diffuso antidoto all’incombente alzheimer socio-culturale.
dalla prefazione di Lino Angiuli




Gramaglie e Frattaglie di Fortuna Della Porta non deve essere letta ma recitata in un teatro dove al davanzale dell'ovest una volta la Luna ricolse il suo pianto e le stelle sorelle, accumpagnate da Venere, sul far del mattino sciallarono dai setati capelli dorate gocce di acquazza. In queste parole-forma vivono suoni Oschi che vocalizzano emozioni ancor prima di uscire come parole, sciamano come un tempo di valle in valle, di villaggio in villaggio e contagiano la forza di uomini per, come dice Lino Angiuli, contrastare in qualche modo questi tempi così narcotici, ma così narcotici, da aver ridotto pesantemente il numero di chi dovrebbe avvertire l'obbligo di “prendere la parola”, anzi brandirla.
 Aky Vetere


L’uso della lingua può diventare strumento di denuncia quando i tempi si avviluppano e non vi è certezza dell’ora della ripresa del cammino. Se la cultura si allontana dalle sedi e dalle menti che dovrebbero custodirla, i modelli di comportamento e di riuscita nella vita si adeguano ai messaggi impronunciabili della maggior parte dei giornali e della televisione e le istituzioni proteggono se stesse più che il cittadino e l’ecosistema, il disagio genera il mostro di un lessico alternativo, non condiviso, e l’amara constatazione che il buio nella Storia tende a ripetersi.
 F.D.P.
 



Quanno dorme ‘a raggione
si scatenano lupi e faine
per questo m’esce sangue d’ ‘e dete
fele dai reni
tremmo comme strega rognosa
appriesso a tanta ammuina
e allora io mi voglio strazzià
strappandomi diente e capille
co’ fegato niro ‘e rapille
Vi domando solo ‘na mano
a transire ‘sta varca ‘ndo mare




Della nave che affonna si racconta
Di tutte le navi che ‘nfradiciano
e affonnano si racconta 
Di navi alla deriva rotto il timone 
Dell’umanità senza umanità 
quando la febbre sale 
Di affetti traditi 
Di mani che frugano carne aperta 
Di piedi che scavallano serpi 
Dei caveaux che allupano i cuori 
d’allupata voracità 
quasi sgrondassero i soldi contentezza 
Della guerra la bulimia si narra 
Della scuola che ignorantia 
Dei fiumi straboccanti scuma 
Della diossina nell’uovo 
Del potere arrubbato che ‘o core s’arrobba 
sbrodolandosi in coppe di cristallo 
Fino al cuorecupo rimbomba l’in-civiltà 
nei vicoli abbandonati 
scozzano fame e lacrime dai piedi scalzi 
Voglio un’ora per ancora una volta assunare 
delle vele che si stregnene ‘o puorto 
della staggione che con carnosi abbracci si torna 
delle vocche rorate dai baci 
dei ventri che abbagnano orgasmi 
dei papagni orgogliosi che nascosero 
la furia degli amplessi 
allora che le scummesse del cuore 
canuscettero l’età dell’oro 
l’ecumenico bacio tra terra e creature 
Non di dove devìa il sole 
e si annacqua la lingua del mare 




La Terra di tutte le terre sulagna e carnale
sdraiata al sole
ammuinata dai venti
olim ospitava ligustri e agavi. 
Con la fronte imperlata di neve
volgeva ‘n cielo l’azzurrità dello sguardo. 
Ma nella quietudine delle notti abbrunate
dall’imo impietroso dei monti
invocava un amante dalle labbra madide. 
Da ogni crepa alluceva un lamento
abbrusiato come un torrente
desuliato come pelle arida. 
Al davanzale dell’ovest una volta
la Luna ricolse il suo pianto
e le stelle sorelle, accumpagnate da Venere, 
sul far del mattino sciallarono dai setati capelli
dorate gocce di acquazza. 
Le forre allora si cummigliarono
di un mare spumiglioso
e la Terra si maritò con un compagno pescoso
di pesci ballerini
onde stormenti e scabre fantasmagorie di flutti
in un arco d’amore di baci e di spruzzi. 
Che frenesia d’azzurri! 
La Terra di tutte le terre trovò pace
nella rorezza dell’acqua
in quel tempo, quando ancora il mare cantava
e sulla sagliuta il sole si fermava tremulianno a mirare. 





 
Mare murenne, non siamo laudenti
portati in funno tutti i potenti
Cavalloni e temporali
propinque affonnano fatali le navi
ma gli uomini senza crianza
sono i pirati dell’ecomattanza
Veleno e scumpiglio cadono a spluvio
sembra ingrommato pure il Vesuvio
l’onna annàca e sustanzia il corallo
patelle e cozzeche a rrégne ‘o timballo
ma oggi a funno si buttan gli avanzi
talfiata ‘na nave che irraggia là innanzi. 
- Uh, che guaio! Uh, che sfacelo! -
stanno impeciando il latte del gelo
‘o petrolio ogn’ora si spande
e l’alicella non trova più lande. 
In abominio di squarti e di scarti
sono neglette le angeliche arti
senza diritto con solo rovescio
la nostra mente imparadisa a sghimbescio
e mo che le vene sono ormai lacere
licet insanire aut versus facere. 
 



 
Il corpo delle donne
allisciato con carta a smeriglio
assaturato, svuotato
stinnicchiato
impinguato con sacchette al silicone
sempre scummigliato
ialino
da criatura o che
ad ipsam in pepetuum
assomigli
abbramato con vava alla bocca
ciascuno
avvalutato, accatastato con voto
assignato
del tasso alcolemico
come Bordeaux
addimostra ipsofacto
il funerale dell’epoca
certe volte da scranni legùlei
appizzicati ‘ncielo. 







CD AUDIO:
Voce recitante : Fortuna Della Porta
Improvvisazioni musicali: Carlo Lomanto
Coordinamento: Rita Pacilio
Registrato e mixato da Marco Colella

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Metafisica dello zero

 
 
 
Basato sul dialetto campano, non proprio napoletano, il testo, in realtà, si avvale di una lingua reinventata che comprende l'eco delle parlate ascoltate nella mia infanzia, quando, in una grande casa, convivevo con nonni e parenti che, originari delle province, conservavano tracce spurie nella lingua adoperata.
In tal senso è nostalgia dell’età dell’innocenza e della giovinezza.
Molte voci sono però del tutto inventate, talora da etimo latino, o ripescate nella memoria letteraria partenopea aulica e ora cadute nell'oblio.
Soprattutto, ho inteso esprimere, attraverso lo strumento di una lingua così rivisitata, come già feci nella pubblicazione precedente Gramaglie e Frattaglie che però aveva un taglio per così dire pubblico, ossia più inerente ad aspetti sociali e culturali, il biasimo e il distacco da una collettività che sembra aver deposto, persino in maniera spavalda, i sensi dell’etica e dell’arte e che ha eletto a sua rappresentanza un idioma povero e trasandato.

 

f.d.p.